o. iar./ La Gazzetta del Mezzogiorno

L'amletico titolo è Manila Paloma Blanca, il regista è il quarantenne torinese Daniele Segre noto per i suoi docudrama fra finzione e realtà di frontiera (droga, emarginazione, omosessualità). E' il film che ha aperto ieri la speciale “Vetrina del cinema italiano”, nella quale sono ospitati tutti gli autori che — pur non avendo centrato l'ambizioso obiettivo del concorso — stanno imbandierando di tricolore questa Venezia '92. Dalla “Vetrina”, che resuscita la vecchia sezione De Sica per i nostri giovani, si potrà giudicare se e come sta davvero montando una rinascita del cinema italiano, e valutarne le tendenze, i temi, gli stili.
La storia di Manila Paloma Bianca è presto detta. Un ex attore, con la straordinaria maschera irata e dolente di Carlo Colnaghi, vive nell'angoscia del disagio psichico, ai margini di una società che rifiuta i matti, forse perché si specchia nella follia e se ne ritira con l'impaurito stupore di riconoscersi. A Torino, oggi, qual è il destino di un reduce dal manicomio? Blasfemia sugli autobus, mense per poveri, case provvisorie, vecchi “amici” che ti scansano e complicità litigiose con altre anime altrettanto tarate dal male oscuro. Ma nell'universo di Carlo irrompe l'amore di una giovane donna della borghesia ebraica, una signora-bene che lo accoglie e lo ristora, incoraggiandolo nel progetto di tornare in scena con un testo autobiografico. Per qualche tempo, il protagonista sembra guarire, ed è un'illusione che molti coltivano — e anche la donna — pensando alla follia come a qualcosa di meccanico, che possa regredire se migliorano le condizioni generali.
Invece tutto è più insondabile e in questo caso complicato dalla confusione esistenziale dell'uomo e dell'ex attore, che recita la vita e vive la recita, consapevole a tratti di un tragico destino da antica Grecia: rappresentare la follia, perché gli altri possano esorcizzarla.
Un film interessante, questo di Segre, che conferma l'esistenza di una, come dire?, «estetica dell'angoscia» lontana da Cinecittà, nelle brume morali del Nord Italia (per esempio L'aria serena dell'Ovest dì Soldini, fotografato dallo stesso bravissimo Luca Bigazzi). Un cinema che indaga nella sofferenza con partecipazione umana e distanza formale, senza spettacolarizzare né ideologizzare. Piace? Non piace? E' un problema che Segre probabilmente non si pone, visto che Manila Paloma Bianca è destinato a mercati clandestini, a meno che la Rai non intervenga meritoriamente a mandarlo in onda. Cinema povero — realizzato anche grazie ai quei contributi del ministero (l'articolo 28) che nella stessa tornata hanno prodotto il discusso esordio semiporno di Marina Ripa di Meana — ha caso mai un limite nella sua stessa forza: l'inespressa ma tangibile volontà di restare marginale.